Lavorando, amando e pregando si offrì e si consumò per la santificazione dei sacerdoti e per la redenzione dell’umanità.

La serva di Dio suor Maria Chiara di S. Teresa di Gesù Bambino, al secolo Vincenza Damato, nacque a Barletta il 9 novembre 1909 (dichiarata all’anagrafe l’11 novembre) da Luigi e Maria Dell'Aquila, ottava di una numerosa prole. Fin da piccola frequentò la parrocchia della Sacra Famiglia di Barletta, iscrivendosi all’Associazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù e dell’Azione Cattolica. Qui si distinse come catechista zelante e amica affettuosa e caritatevole.
Dopo lunghe prove da parte del parroco don Sabino Cassatella e dei suoi familiari, entrò il 7 settembre 1928 all’età di diciannove anni tra le Clarisse Farnesiane di Castel Gandolfo (trasferitesi in seguito ad Albano Laziale), dove si consacrò al Signore con i voti religiosi il 1° novembre 1930. Suor Maria Chiara abbracciò la vita claustrale non in odio al mondo ma per il grande amore che sentiva per l’umanità. Indotta da don Cassatella a una speciale devozione verso santa Teresa di Gesù Bambino, suor Maria Chiara ebbe sempre come modello di vita la piccola carmelitana, vivendo in monastero una vita semplice e nascosta, nell’austerità e nell’intima amicizia con Cristo povero e crocifisso, cercando di divenirne “una sua viva copia”, e questo nella fedeltà alle piccole cose di ogni giorno fatte con amore. Lavorando, amando e pregando si offrì e si consumò per la santificazione dei sacerdoti e per la redenzione dell’umanità.
Anche se si contraddistinse per l’umiltà tuttavia emergeva in lei una forte personalità, per niente possessiva, piuttosto dolce, equilibrata, capace di trasmettere pace e sicurezza anche in chi l’avvicinava. Riporta una sua consorella che, appena entrata in Monastero, essendo stata assalita da forti tentazioni circa lo stato di vita intrapreso, suor M. Chiara, con le sue parole suadenti, la liberò da tali sofferenze. E’ la stessa testimone a raccontarcelo: “Una volta in ricreazione mi diceva: ‘Piccinina, perché ti sei fatta religiosa?’; io le risposi: ‘per farmi santa’. Essa col suo sorriso mi rispose: ‘Non basta’. Poi mi spiegò che bisognava pensare alle anime altrui, salvarle coi nostri sacrifici, disprezzo di noi stesse, specialmente l’abnegazione e il nascondimento di noi medesime”. Il suo carattere solare e allegro la rese punto di aggregazione dell’intera Comunità: “In ricreazione ci faceva molto ridere”, afferma suor Maria Matilde Campese.
Se la sua esistenza fu tutta un dono vissuto per amore e nell’amore, suor M. Chiara manifestò le vette della carità più generosa durante la Seconda Guerra Mondiale quando il Monastero di Albano fu bersagliato dai bombardamenti sotto i quali rimasero prive di vita 18 monache. Colpita anche lei non trascurò nulla pur di alleviare le sofferenze delle sorelle superstiti. Dimentica di sé, si privò perfino del cibo, divenendo l’immagine vivente di Gesù che ha dato se stesso come cibo perché noi avessimo la vita. Tutto ciò contribuì a indebolire la sua salute e all’età di 36 anni emersero i primi sintomi di tisi: l’offerta divenne completa.
Nel solco della tradizione cristiana e francescana, visse in perfetta letizia l’ultima tappa della salita al Calvario. Al fratello Gioacchino, sacerdote rogazionista, preoccupato circa il suo stato morale, la Serva di Dio in una lettera del 2 settembre 1946 rispondeva: “Mio caro fratello, può non santificarsi un’anima che in tutte le ore della sua vita mortale prende dalle mani del suo Creatore con santa gioia e rassegnazione le croci giornaliere ora dolorose, ora gioiose? A Sua maggior gloria, ti posso assicurare che questa santa gioia e rassegnazione, a misura che la croce si fa più pesante e dolorante, la va spargendo nella mia povera anima. Semper Deo gratias!”.
Suor M. Chiara bevve al calice amaro della Passione nella nudità completa, priva perfino del conforto delle mura monastiche e delle consorelle dalle quali, con sommo dolore, a causa della malattia fu costretta a congedarsi per raggiungere il Sanatorio “San Camillo” di Roma prima e in seguito il “Cotugno” di Bari.
Il Signore la trapiantò nel “claustro” del Sanatorio perché realizzasse un’altra missione: “Era d’esempio agli altri malati degenti in ospedale - afferma un testimone - con la parola, con l’esempio, con il consiglio, confortando ed incoraggiando gli ammalati ad accettare le sofferenze come espressione della volontà di Dio”. Anche qui non interruppe mai la straordinaria unione con Dio: “Al mattino era la prima a recarsi in Cappella e la sera l’ultima a lasciare quel luogo sacro che formava l’unica gioia dei suoi ultimi giorni”.
Cosciente che i suoi giorni terreni volgevano al tramonto, si preparò ad accogliere “sorella morte” come chi va a nozze. Il giorno prima che morisse predispose che le suore ospedaliere le cantassero l’inno delle Vergini “Jesu corona virginum” e la lode di S. Teresa di Gesù Bambino (suo modello di vita) “Morir d’amore”, che aveva imparato nel fiore degli anni nella Parrocchia della Sacra Famiglia della città natale, dalle labbra del suo Padre Spirituale, don Sabino Cassatella. Ricevette il Santo Viatico e l’Unzione degli Infermi dal fratello, padre Gioacchino, e il martedì 9 marzo 1948, alle ore 13, nel giorno e nell’ora da lei predetti.
Andando sempre più aumentando la fama di santità, la Congregazione per le Cause dei Santi diede il nulla osta per l’introduzione della causa di beatificazione e canonizzazione l’11 maggio 1982. Il 29 novembre 1983 in Bari, mons. Mariano Magrassi, arcivescovo della città, procedette all'insediamento del Tribunale Ecclesiastico per il Processo Cognizionale conclusosi l’8 marzo 1990. Nel 1998 è stata data alle stampe la Positio super virtutibus.


Autore: Don Sabino Lattanzio
TRATTO DA: http://www.santiebeati.it/dettaglio/91658

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