Il Messaggio della Santa Casa -> Novembre 2009

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Il Messaggio della Santa Casa



Suor Maria Chiara Damato
sac. Sabino Amedeo Lattanzio


Una vita offerta per i sacerdoti
Nel corso di questo “Anno Sacerdotale”, fortemente voluto dal Santo Padre Benedetto XVI affinché i sacerdoti possano approfondire la propria identità e la tensione “verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero”, non possiamo non ricordare la serva di Dio suor Maria Chiara di Santa Teresa di Gesù Bambino, al secolo Vincenza Damato, nata a Barletta il 9 novembre 1909, che ha offerto la sua giovane esistenza per la santificazione dei sacerdoti. In una lettera del 28 ottobre 1945, scrivendo a suo fratello Gioacchino, sacerdote rogazionista, afferma: “Figliuol mio, mio grande desiderio è vederti santo, veder santi tutti i Sacerdoti perché possano portare Gesù alle anime e le anime a Gesù. Egli è assetato di anime e le anime non hanno chi glielo fa conoscere per amarlo”. Questa sua affermazione è confermata anche da chi l’ha conosciuta: “Offriva le sue sofferenze per il Santo Padre, per i sacerdoti, per le anime consacrate”.

Una giovinezza tutta per Gesù e per gli altri
Già negli anni in cui visse in parrocchia si distinse per straordinaria generosità e per fervore soprannaturale. Così ha testimoniato una sua amica: “Ho conosciuto Cenzina Damato verso l’anno 1927, quando tutte e due facevamo parte della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, ognuna nella sua parrocchia. Ci incontravamo nelle adunanze e iniziative a carattere diocesano. […] Io ammiravo la sua vivacità unita ad una semplicità che attraeva. La trovavo occupata per il decoro della chiesa o nell’insegnamento catechistico”. Molto forte il giudizio del viceparroco della Sacra Famiglia, mons. Orazio Stella: “Amava molto il canto, sempre presente ai riti religiosi, durante i quali conservava sempre grande compostezza e dignità. La sua amabilità accompagnava il suo tratto che si rifletteva sempre in sereno sorriso […] La sua personalità morale e religiosa era una delle più complete che io abbia conosciute”. Mons. Stella non dimenticò mai questa bellissima e vivace giovane anche dopo che nel settembre 1928 partì, all’età di 18 anni, alla volta del monastero delle Clarisse di Castel Gandolfo - poi trasferitosi ad Albano Laziale - per intraprendere la vita claustrale non in odio al mondo ma in continuità con il grande amore che sentiva in Cristo verso i fratelli: “Il mio zelo – era solita affermare – non deve limitarsi a poche persone, ma a tutti i fratelli in Cristo”. In tal modo, nel silenzio del chiostro, sull’esempio di Cristo che amò “sino alla fine” (Gv 13,1), realizzerà in pieno la sua vocazione bruciando d’amore, pregando e offrendosi.

Carità eroica nelle prove e nella malattia
Anche se l’umiltà fu la caratteristica predominante, le sue virtù non restarono nascoste perché era la sua stessa vita a gridare. Dal suo modo di fare traspariva una forte personalità per niente possessiva, piuttosto dolce, equilibrata, capace di trasmettere pace e sicurezza. Se la sua esistenza fu tutta un dono vissuto per amore e nell’amore, la serva di Dio manifestò le vette della più alta carità durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il monastero di Albano fu bersagliato dai bombardamenti, sotto i quali rimasero uccise ben 18 monache. Colpita anche lei, non trascurò nulla pur di alleviare le sofferenze delle sorelle superstiti e, dimentica di sé, si privò perfino del cibo per darlo alle altre, divenendo così l’immagine vivente di Gesù che ha dato se stesso per noi. Tutto ciò contribuì a indebolire la sua salute e all’età di 36 anni emersero i primi sintomi di tisi. L’offerta divenne completa e la preghiera rivolta più volte allo Sposo Celeste si stava realizzando: “O Gesù, che io diventi una viva copia tua… e questo anche a mia insaputa…”. Nel solco della tradizione cristiana e francescana, visse anche quest’ultima tappa dell’esistenza terrena in perfetta letizia e con sereno abbandono alla volontà di Dio bevve al calice amaro della Passione per condividere con Cristo povero e crocifisso la sete ardente del riscatto delle anime. E il tutto nella nudità completa, senza neppure il conforto delle mura monastiche e delle consorelle dalle quali, con sommo dolore, si congedò a causa della malattia per entrare in sanatorio. Il Signore l’aveva trapiantata nel “claustro” del sanatorio perché realizzasse un’altra missione: “Era d’esempio agli altri malati degenti in ospedale – rammenta un testimone – con la parola, con l’esempio, con il consiglio, confortando ed incoraggiando gli ammalati ad accettare le sofferenze come espressione della volontà di Dio”.

Straordinaria vita eucaristica
Anche qui non interruppe mai la straordinaria unione con Gesù presente nella santissima eucaristia, così come aveva imparato fin da piccola, tra i banchi della chiesa parrocchiale. Una suora infermiera così la ricorda: “Al mattino era la prima a recarsi in cappella, e la sera l’ultima a lasciare quel luogo sacro che formava l’unica gioia dei suoi ultimi giorni… Coltivava costantemente l’unione con Dio ed era capace di sacrificarsi al massimo per recarsi ogni mattina, quasi trascinandosi, in cappella per ascoltare la S. Messa. Anche durante il giorno lasciava spesso la sua stanzetta per portarsi a visitare Gesù Sacramentato”. Gesù e il prossimo furono per lei lo stesso amore! Dal sacramento dell’altare attinse luce e slancio per far sentire il suo calore a coloro che con lei erano lì ricoverate, riuscendo a trasformare quel luogo di annientamento, di inquietudine e di dolore in luogo dell’incontro con Dio. Si può dire che suor Maria Chiara, lungo il corso della sua esistenza terrena, abbia incarnato lo stile di vita di Gesù vissuto per trent’anni nel nascondimento operoso di Nazaret.

Edificante esperienza a Loreto nella casa di Maria
Nel 1947, durante il mese di maggio dedicato alla Madonna, tanto cara alla serva di Dio, prima di passare dall’ospedale San Camillo di Roma al sanatorio di Bari, i superiori stabilirono che prendesse parte a un pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto, allo scopo di ottenere il miracolo della guarigione. La sosta in quella località mariana si protrasse dal 23 al 28 maggio. “Vado a Loreto – scrive al fratello – con santa gioia. Quando sarò in quella S. Casetta, chiederò alla Vergine che, se per la santificazione dei suoi Ministri e la salvezza delle anime è necessaria ancora maggiore sofferenza, me la conceda per la sua bontà…”. Di ritorno manifesta sempre al fratello sacerdote tutto il carico di entusiasmo lì accumulato: “Fratel mio, non ho termini per esprimere le grazie intense che la SS. Vergine mi ha concesse nella sua Casa. Nell’assistere ai Divini Sacrifici, mi sentivo piena di santa gioia, mista ad una pace da non dirsi. (…) Trovandoci nell’ottava del SS. Sacramento, recitammo il Divin Ufficio con Gesù solennemente esposto. Quale umile raccoglimento! Mi sentivo piccola piccola dinanzi a tale grandezza, ma ero felice. L’ultima sera restammo in Basilica fino alle dieci, il nostro Padre (frate minore cappuccino) ci aperse il reliquiario e così vedemmo la scodella di Gesù Bambino che egli appoggiò sul mio petto. Fu in quell’ora fortunata che chiesi la grazia, impostami dall’obbedienza, della guarigione. Pregai che in me restasse glorificata la sua Bontà, (pur non scegliendo nulla di mia volontà, egualmente disposta alla sanità o alla malattia) che si compiacesse di aderire ai desideri dei miei Superiori”. Anche in questa seconda lettera si vede chiaramente che il suo amore oblativo è più forte della richiesta di guarigione. Tuttavia esegue l’atto di obbedienza impostole dai superiori, senza, però, mettere condizioni alla superiore volontà di Dio, restando “egualmente disposta alla sanità o alla malattia”.
A questo punto è lecito domandarci: come può una giovane restare felice pur sapendo che il suo corpo andava disfacendosi? Stralciamo ancora una volta da una lettera inviata al fratello Gioacchino: “Con le mie deboli forze, appoggiate su quell’Ostia, cerco di divenire anch’io un’ostia. Ecco tutto il segreto”. Il segreto della sua gioiosa offerta oblativa sta nell’aver puntato sul dono incommensurabile della santissima eucaristia celebrata, adorata e vissuta. Questa esperienza viva con Cristo vivo “pane spezzato” la rese missionaria, in quanto è impossibile possedere un tale “dono” senza sentire l’esigenza di trasmetterlo agli altri.
Con questa fede e con questo amore concluse la sua straordinaria esistenza terrena nel sanatorio di Bari il 9 marzo 1948, all’età di 39 anni.

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